Manduria
Manduria è la cittadina in cui sono cresciuto e in cui ritorno per ritrovare i miei genitori. Tra le sue strade deserte sono alla ricerca di una qualche corrispondenza con le tracce dei paesaggi che abitano la mia memoria, una sorta di viaggio alla ricerca di una antica familiarità.
Chi abita molto distante dai propri luoghi di origine vive una condizione di frattura che, di tanto in tanto, richiede di essere ricomposta, congiungendo i lembi del proprio presente con quelli del passato e dando forma al senso di sradicamento che pian piano è cresciuto dentro. Ma lo sguardo fa fatica a penetrare all’interno di quegli spazi. Non può che arrestarsi davanti alle facciate di quelle case, costruzioni sospese tra vecchio e nuovo, tra solido e fatiscente, tra stabile e precario, rinunciando a trovare punti di accesso, non potendo che rassegnarsi a lambire quei luoghi dall'esterno, accettandone l’implacabile estraneità.
John Berger, in Capire una fotografia, scrive che davanti ad un’immagine fotografica si cerca quel che c'è stato, come fanno i ricordi. Riguardando le fotografie scattate durante quelle escursioni solitarie, mi rendo conto tuttavia che le immagini falliscono nel compito di ricomporre quello iato temporale. In esse vi trovo piuttosto l’andamento lineare di un monologo interiore, dove i paesaggi, le facciate e le porte delle case, più che spazi di accesso, diventano schermi di proiezione.
Proiezione soprattutto di un bisogno urgente, quasi ossessivo, di equilibrio e di composizione. Nelle immagini, infatti, ritroviamo da una parte l’insanabile anarchia che caratterizza quelle periferie, che fuggono ogni omogeneità architetturale e ogni velleità di ordine seriale che caratterizza, ad esempio, i quartieri residenziali delle aree metropolitane. Dall’altra, il tentativo di mettere in forma quel disordine dall’aspetto disabitato, in cui, nel bianco dominante della pietra calcarea e della calce, antica testimonianza di una qualche coerenza cromatica, spiccano le incursioni di colore, che materializzano lo stridore tra antico e moderno.
In questa tensione tra caos e messa in forma, lo sguardo non può che arrendersi davanti all’impenetrabilità delle superfici delle case, ai loro accessi chiusi da infissi incongrui, argini provvisori, barriere precarie come teli, lamiere, mattoni di tufo. Elementi estranei all’edificio, che sfuggono ad ogni tentativo di composizione e di messa in forma. Ostacoli allo sguardo che divengono paradossalmente schermi posticci delle mie proiezioni, dove far scorrere la frustrazione di una corrispondenza mancata, di un incontro che non può avere luogo.